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Dalla seconda aletta di copertina.
​Commento a cura di Alessandro Lattarulo
E' un verso asciutto quello che Ester Cecere consegna al suo peculiare racconto dell’India.
Un verseggiare senza né lacrime né pietà. Dai componimenti, ma a ben guardare anche dalle fotografie che corredano l’opera con la loro potenza figurativa, emerge piuttosto lo spaesamento nel raccontare per prima a sé stessa lo stupore derivante da quel che osserva.
Non è questione di attrito della donna occidentale,la cui quotidianità viene travolta dal ritmo impetuoso del cambiamento, ma la constatazione che la retorica televisiva o dei social network non può surrogare la realtà. La realtà è infatti un puzzle multicolore e multidimensionale, le cui tessere vanno composte con fatica perché suoni, volti, odori, sapori assumono fino in fondo i contorni che sono loro propri esclusivamente attraverso una scoperta “sul campo”.
Ma nelle liriche di Cecere c’è altro, molto altro. C’è il senso di inadeguatezza per non essere stata in grado di figurarsi la complessità del pianeta e dei costumi dei suoi abitanti prima di averla sperimentata con tutti i propri sensi. Se ogni viaggio è una scoperta, quello compiuto in India lo è, se possibile, ancora di più, anche perché a tutta prima dà la sensazione di un ritorno a un passato ignoto. Tale groviglio di emozioni traspare chiaramente dalla scelta compiuta dalla poetessa-ricercatrice, che alle parole, talvolta persino timide e imbarazzate, quasi che violino un’intimità altrui disarmata e differente dai canoni della nostra civiltà, aggiunge quasi sempre una spiegazione rivolta al proprio animo, per convincersi che sia possibile restituire al cuore, con un aggettivo o con una parola, l’altrimenti indicibile che la propria sensibilità di donna e mamma ha rintracciato tra bambini, dei e templi.
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Dal  Premio “Scriviamo insieme” (Roma, 2016) 
da L’ALFIERE Anno XXVIII – n.2-3 – Maggio 2016
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