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Prefazione  BURRASCHE E BREZZE
a cura di Carla De Carli


Ester Cecere, autrice di questo libro, ha due grandi passioni: il mare e la scrittura. Il mare fa parte della sua vita fin da quando era bambina ed oggi lavora con il mare e vive sul mare, e aggiungerei per il mare, essendo una biologa marina. La scrittura è un suo bisogno innato; scrive ovunque e in qualunque momento avverta l'esigenza di mettere su carta i suoi pensieri, le sue emozioni.

Dopo queste premesse, questi cenni sulla vita privata dell'autrice, diventa molto più facile comprendere come questa silloge sia il frutto non solo di emozioni, situazioni, sensazioni e vissuti ma anche di due grandi interessi  che da sempre accompagnano e segnano la vita dell'autrice. L'amore per il mare si percepisce già dal titolo Burrasche e Brezze e ricorre nel corso dei componimenti sotto forma di metafore ed immagini. Ma veniamo ora al titolo. Burrasche e Brezze non sono solo due termini che appartengono al campo semantico del mare ma vengono qui usati come metafora della vita di ogni essere umano. Le burrasche di cui ci parla la scrittrice sono infatti i momenti difficili, pieni di sconforto, sono i problemi, le tempeste contro le quali ognuno di noi si confronta più o meno spesso. Le brezze, al contrario, sono gli attimi di quiete, di tranquillità, di sollievo che capitano anch'essi a risollevarci e suggerirci che la vita non è solo sofferenza. Rappresentano la gioia, anche se solo momentanea. Le brezze sono infatti venti deboli, solitamente gradevoli perché portatori di refrigerio, soprattutto in estate, nelle giornate assolate e nelle calde notti.

Il mare è come la vita, quindi, il mare è vita per la scrittrice. Nelle sue vene, come lei stessa ama affermare scherzosamente, scorre l'acqua di mare e non il sangue.

Non si può prescindere da questo concetto per avvicinarsi e comprendere appieno le poesie di Ester Cecere. La silloge contiene le poesie di una vita, componimenti che l'autrice scrive dall'adolescenza e che sono nate così, all'improvviso, in seguito a forti emozioni vissute dalla scrittrice, scritte di getto e poi eventualmente modificate, riviste allo scopo di donare loro un po' di musicalità; ma la maggior parte dei componimenti sono comunque rimasti nella loro forma originale e se c'è rima è un fatto spontaneo non ricercato, non meditato. Ecco quindi che nei componimenti si parla della morte di personaggi famosi come Aldo Moro o Papa Giovanni Paolo II o di persone care alla scrittrice o ancora di un animale domestico (ln morte di Pascià, Ho toccato la morte) ma anche della fine di un amore e l'indifferenza dell'ambiente circostante (lI mendicante) che lasciano trasparire un senso di sconforto, sofferenza che si trasforma a tratti in disperazione. Tuttavia, talvolta, gli scritti di questa silloge testimoniamo, o sarebbe il caso di dire, fotografano, anche attimi che suscitano serenità come, Albero di Natale e Firenze. Tra i sentimenti che ispirano le poesie ci sono anche un senso di consolazione che emerge al ricordo della madre e dell'affetto per essa (A mia madre), consolazione derivante dalla consapevolezza che l'affetto della genitrice è superiore a quello di chiunque altro e che la madre non la lascia mai; e ancora compare anche un desiderio di Evasione dalla routine quotidiana e dai conseguenti impegni. Scorrendo lungo i versi della silloge si incontrano poesie dedicate alla maternità, una sensazione unica e molto intima che solo una madre può comprendere e che si manifesta sotto forma di Incredulità, di stupore di fronte alla prima gravidanza per avvertire la presenza di una vita che nasce oppure testimonia che l'affetto materno alla seconda gravidanza è presente fin dal concepimento (Maternità).

Altre poesie nascono dalla riflessione dell'autrice su alcuni eventi da lei vissuti come la morte di un gabbiano che hanno fatto scaturire considerazioni sul rapporto uomo-natura, la vista della luna (Ho scoperto la luna) o di una ragnatela. Ester Cecere mostra una grande abilità nel descrivere i propri vissuti, le proprie sensazioni con delle immagini il più delle volte molto suggestive come si può leggere ne La maschera, in ricordo della maschera del teatro greco, Crepuscolo, che indica una notte lunga senza l'alba o L'urlo e Deserto che esprimono dolore e Il burattino che esprime desolazione e rabbia. La silloge di Ester Cecere è permeata dall'inizio fino alla fine di un pessimismo radicato ma non assoluto, si respira un senso di affanno, di stanchezza di vivere che provoca anche disagio e che è dato dal ricorrere dei sentimenti di sgomento, di speranza, di solitudine e la morte in tutto ciò è vista come unica via di fuga, come una liberazione da tanto dolore, riposo e salvezza. Prevale infatti una terminologia che richiama il senso di stanchezza come "anima stanca", "cuore affaticato". Ma come si accennava qualche riga sopra il pessimismo non è assoluto, non è definitivo ma lascia un breve spazio alla speranza come si può leggere in La primavera e in La lampara, una speranza alimentata dalla fede in Dio, altro tema ricorrente nella silloge e soprattutto in Tempo d’ascoltare e nelle poesie dedicate ad Aldo Moro e Giovanni Paolo II, e all’amore per le persone care come il marito e i figli. La poesia di Ester Cecere trasforma le emozioni, i sentimenti, gli stati d'animo suoi personali in qualcosa di universalmente riferibile ad ognuno di noi. La sofferenza è un fatto privato ma non diverso da persona a persona: tutti noi soffriamo allo stesso modo ma ciò che ci distingue è il modo in cui manifestiamo questo sentimento. Leggendo le poesie possiamo scovare degli aspetti che ci appartengono, possiamo riconoscer ci nelle immagini, nei pensieri, nelle emozioni e nei personaggi che popolano questi componimenti e, così facendo, possiamo provare una sensazione di conforto, di coraggio che nasce dal condividere certe emozioni e che ci convince che non siamo noi ad essere diversi, alieni o sofferenti oppure felici a seconda delle circostanze, ma che in realtà quel caleidoscopio di emozioni caratterizza tutta l’umanità.

Carla De Carli

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