Ester Cecere, Come foglie in autunno, Tracce, Pescara, 2012; e Burrasche e Brezze, Albatros, Roma, 2010
RECENSIONE A CURA DI NAZARIO PARDINI Ho letto con entusiasmo queste due plaquette di cui Ester Cecere mi ha fatto dono. Versi agili, snelli, luminosi, agevoli, contaminanti. Traducono il pensiero del dipanarsi eracliteo dell’essere e dell’esistere. Si modulano in base alle richieste di un cuore e di una mente volti a dire, a constatare, a osservare, a annotare, ma anche, e soprattutto, a riflettere e a sentire. A vivere insomma. A fare della poesia un tatuaggio dell’anima. Quanto gonfia di sentimento questa trina prosodica! Si serve della natura, affidandole il compito di confessare un vissuto che, rimasto a decantare in animo, ne esce zuppato, e saporoso di vita. Si serve dei suoi stratagemmi, dei suoi impatti visivi, dei suoi profumi, delle sue furie, delle sue bonacce o delle sue brezze tenere e accattivanti: messaggi altamente metaforici di tracciati ora reali, ora onirici, ora memoriali. Il linguaggio allegorico, allusivo diviene gioco di metafore da cui esonda la visione di una vita tanto precaria ed esile, quanto “Le foglie in autunno”. Una vita che si consuma fra burrasche, brezze, solitudini, interrogativi, illusioni, delusioni, speranze: cose umane che, alfine, restano aggrappate a stecchi crudi di un’ultima stagione, o a venti di mare tanto instabili quanto il volere volubile del destino. Ed è un sentimento di melanconia sottile a intrecciare queste liriche, dando loro una compattezza dal sapore del male di esistere. Mai pessimismo, comunque, ma solo amore per l’amore, amore per il “grande pensiero, per il mare, per il sogno, per il tutto: terriccio fertile per un lirismo tanto effusivo da tramandare, con efficacia quasi foscoliana, quale patrimonio umano, che parli d’eterno, con una coscienza di forte connotazione umana. L’autrice affida al foglio quella parte di sé che grida esistenza, un’esistenza che cerca di sopperire alla caducità: speranza che il verso prolunghi il suo potere fino a raggiungere le soglie dell’impossibile. E la poesia non è altro che quella parte di noi che più si avvicina all’inarrivabile. Ed è il motivo della precarietà dell’essere, della caducità delle cose umanamente terrene a fare da filo conduttore alle due opere, tanto che spesso l’anima stanca si affida a vibrazioni paniche per chiedere consiglio su interrogativi metaforicamente espletati in “notte d’angoscia”. Questioni che fanno parte dell’autrice, della sua sostanza umana, troppo umana. Ma di lei fa parte anche la forza di vivere, il coraggio di superare in piccoli vascelli burrasche tanto forti da logorare gli scogli. Direbbe il poeta: “Questa vita sarebbe virtuale se non se ne tentasse un’uscita”. “Ho bendato gli occhi / perché la luce non li trafigga. / Ho serrato le labbra / perché ho solo silenzi. / Ho seppellito il cuore / per non sentirne i battiti. / Senza di me, / sopraggiunga la notte.” Riflessioni amare, ma anche dettate dalla forte convinzione di un caso tanto unico e irripetibile, quale quello di esistere. E anche se la memoria a volte compie bilanci non sempre positivi di questi conflitti esistenziali: “ Viavai di anni, / come ape laboriosa, / tra fiori immaginati. / Fiele in bocca / il sapore di una vita / spesa in un alveare pazzo / senza produrre miele.”, tuttavia è l’amore che interviene per dare un motivo valido a che l’esistenza vada vissuta nella sua pienezza: “Occhi di foglia e di nocciola / penetranti e muti / l’animo interrogano e / il cuore trafiggono. / Sono gli occhi dell’amore”. E anche se la poetessa cerca di munirsi di difese a che l’anima non tenti ardui voli: “Rigida armatura / ancora una volta indosso/ per impedire all’anima / i suoi voli”, tuttavia non esiste armatura che possa ostacolare i grandi e superbi voli della poesia. E anche se l’autunno spesso è metafora di privazioni, e di abbandoni: “Una dopo l’altra / si staccano le foglie. / Lente volteggiano alcune. / Veloci cadono altre. / E sempre più spoglio resta / dei miei affetti l’albero.”, tuttavia l’autunno sa anche configurarsi come stagione luminosa e profumata di primavera: “Improvvisamente comparso / mago nella fiaba / … / Orizzonte luminosissimo / sicuro mi mostri / al quale incredula m’affaccio. / E questo autunno / ha la dolcezza della primavera.”. Tante vibrazioni, e l’antitesi è il sale della poesia. E il dualismo fra dire e sentire si fa amalgama, simbiotica fusione. Perché felicemente la parola, disponibile e dilatabile, sa contenere i guizzi emotivi dell’autrice. E’ qui la grande virtù di Cecere: il sintagma, la ricerca tecnico-fonica, l’ebrietudine lessicale che rende nuovo, originale, libero e spazioso il dettato poetico. E l’autrice ha bisogno di una poesia libera, di un linguaggio vario e variabile, perché tante sono le emozioni che vive e che trasmette a chi ha la fortuna di leggere i suoi versi. Perché, alfine, è la grande poesia che azzarda lo sguardo oltre confini per proiettarlo al di là dell’ampiezza dello stesso mare, di per sé grande ed infinito. |
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