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Prefazione COME FOGLIE IN AUTUNNO
a cura di Ninnj Di Stefano Busà
 

         In questa sua seconda raccolta poetica, che porta il titolo emblematico Come foglie in autunno, Ester Cecere appare più incisiva e coesa. L'esigenza di controllo sulla parola si fa più avvertita ed emozionata, pure se appartenente ad una scrittura che palesa fortemente il bisogno in sé di dialogare, di esternare il disagio accompagnando la scrittura con accenti suggestivi, che tendenzialmente si sviluppano in più ampie volute d'emozioni, come ad es. "acqua che spenga i sensi" o "fiele in bocca/ il sapore di una vita/ spesa in un alveare pazzo/ senza produrre miele».

Sono parole decise che preludono a sensazioni di sconforto e ad atteggiamenti più palesi di contrasto, verso quelle ombre che in ognuno hanno ragion d'essere e vanno ridimensionate e superate, con la dovuta indulgenza e il coraggio di saper guardare la vita a testa alta, combattendola nei suoi atteggiamenti più ostili e contraddittori.

Ma quello che questa poesia esprime è molto di più: vi è una nostalgia stemperata al fuoco del l'analisi introspettiva, vi sono le gioie piccole e sincere che "il diafano sipario asciuga».

E vi è la fede del Risveglio con: "Solo ora ti vedo./ Negli occhi senza luce/ del bimbo denutrito/ nella ragazzina violata/ .. ./nello sguardo smarrito del randagio/ che per tutti chiede perché». Le metafore appaiono segnali di appartenenza ad un gergo semantico e strutturale intenso, che si confronta molto spesso con l'io interiore e s'interroga, ne capta tensioni e sconforti, ne subisce il fascino in una momentanea e suadente tregua che caratterizza emozioni e dilemmi mai sopiti, però non desolanti né asfittici, ma desiderosi di ulteriori verifiche dentro un lirismo che si rispecchi più in profondità: nel suo universale disagio, nel suo sentimento di incredulità e stupore dinnanzi alla vita, ai suoi abbandoni, agli smarrimenti o assenze.

Gli affetti sono sempre in primo piano o sullo sfondo: cercano supporti e cenni sicuri di speranza, ambiscono a spazi condivisibili e consapevoli che talvolta trovano la meditata trasposizione nel loro itinerario di fede. E appaiono come desideri di luce, progettano episodi crepuscolari in cui, pur attenuandosi i colori del giorno in orizzonti a volte distratti, evanescenti, restino saldi nella memoria e inalterati i sentimenti necessari al disgelo dell' anima, alla sua evoluzione spirituale e umana.

Sullo sfondo di un panorama denso di immagini e vivido per una coscienza lirica che lo simboleggia e lo coglie, vi è sempre trascritto a lettere cubitali un dolore, sordo, acuto, trattasi del dolore universale, trattasi della parabola più sofferta dell'intero pianeta. Non vi è gioia senza lacrime sembra tradurre la poetica di Ester Cecere, non vi sono sogni senza la sofferenza del risveglio.

Audaci i nostri sensi ci indicano la rotta del cuore, che spesso percorre territori impervi, e tuttavia, continua a pulsare la vita col suo battito d'ala ferita.

Lo stesso sentimento battagliero d'irrinunciabilità alla lotta esplode e si fa sintonia di luce, speranza e saggezza destinate a contrastare la fine di tutto, a stimolare una sorta di panacea, una tregua nel vuoto inestinguibile esistenziale: "Macigni invece/ giunsero sul cuore,/ taglienti e aguzzi,/ e fosse/ di sangue ancora vivo/ incolmabili scavarono".

L'amore ci salva, ha la sua coesione e il suo alveo sereno dentro di ognuno, resiste in fondo al cuore nidificando coi ricordi, si fa ansia d'infinito, ispirazione all' eterno: "Salirei lassù/ vicino a te/ per riposarmi sul tuo cuore./ E troverei risposte/ nel silenzio dei tuoi occhi" versi bellissimi dedicati alla madre.

Questa poetica ha punte di pessimismo, ma non è mai oggetto di dolore dilacerante, non si consegna al disagio, al male ineludibili; non si lascia sopraffare dal contingente; lotta, fa sue le regole del gioco secondo le quali la vita va vissuta in funzione della conquista, per la sopravvivenza, nella finalità di un aldilà di Luce che brilli allo stupore del primo mattino, con la consapevolezza di esser(ci) proteggendo i nostri intimi pensieri dall'autocommiserazione, dall'autodistruzione e dalla compassione, deducibili da questi versi: "Mi riempio/ dello stupore dell'alba/ che di rosa tinge/ della notte le ombre,/ dell' eterno sciabordio del mare/ sommessa preghiera/ di ogni vivente".

E ci pare una dichiarazione di Fede, di abbandono innocente e incantato, quasi un inno alla vita, perché ne esprima tutta la gratitudine, con lo sguardo rivolto al Trascendente che in quest'autrice si avverte sommesso, riservato, ma vivo.

Un anelito verso l'Alto, un panismo fatto di religiosità e pudore, di candore e abbandono al Mistero: "È preghiera,/ il vento tra le fronde/ sui monti Sibillini./ È preghiera,/ lo scroscio di ruscelli/ tra boschi e valli persi./ È invito/ il richiamo dell'upupa/ all'ombra di benigni campanili" come recitano anche questi versi: "E dell'eterno mistero/ del tuo nascere e morire,/ una volta ancora/ mi stupisco".

Ninny Di Stefano Busà

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