Ho letto “Shurùq. Il soffio del deserto urbano” di Enzo Ferrari
edit@ Casa Editrice & Libraria, Taranto, 2017.
Undici racconti brevi che narrano di vite e di dignità smarrite a causa della perdita del lavoro, della separazione dal coniuge, di un clichè imposto dalla famiglia e mai accettato. Solitudini che si trascinano nel grigiore di una quotidianità mediocre, insoddisfacente, abbruttente. Solitudini di vite naufragate per circostanze avverse, impreviste e imprevedibili.
E l’autore ci presenta la solitudine e la mortificazione del padre disoccupato e separato, che osserva di nascosto la figlioletta all’uscita da scuola. La solitudine dovuta all’incomprensione e alla mancanza di coraggio del fallito che per tutti si finge uomo arrivato. La solitudine dell’operatrice del call center, che lavora giornate intere per poche centinaia di euro al mese, e che pure non se la sente di chiudere la telefonata e accoglie un’altra solitudine, quella della vecchietta senza più congiunti, che trova compagnia e interlocutori solo in quella categoria di lavoratori. La solitudine e il rimpianto di chi constata il fallimento del proprio matrimonio, di chi scopre nella propria compagna di vita un’estranea, addirittura una nemica e, al contrario, la solitudine e lo smarrimento di chi, invece, ha perso la propria compagna di vita ed è rimasto completamente solo. Addolora la solitudine e la delusione del genitore ormai anziano, che ha dedicato la sua vita di sacrifici all’unico figlio per permettergliene una migliore, figlio che non vede mai. E’ pertanto costretto a ricorrere allo stratagemma di regalare una piccola somma di denaro alla nipotina per incentivare le visite del figlio e riuscire così a vederla più spesso.
I personaggi si muovono come al rallentatore, in periferie desolate e desolanti, in fatiscenti case popolari di una città che ha conosciuto tempi migliori. E si intuisce che questa città è Taranto, dove l’autore è nato e vive, anche se egli non lo dice espressamente, come a lasciare intendere che di tali periferie è pieno il mondo! E così davvero è, se si considera che i temi della separazione, della perdita del lavoro o del lavoro saltuario e mal retribuito, della povertà che ne deriva, dell’abbandono affettivo degli anziani non sono prerogativa di un determinato territorio.
Le luci e i suoni di una società consumistica, falsa e ormai inarrivabile, fanno da sfondo a tanto squallore. E nell’ultimo racconto, quasi a tirare un respiro di sollievo e come per aprire un varco alla speranza, da un promontorio si scorge l’azzurro del mare con in primo piano il viola delle orchidee selvatiche.
Su queste esistenze tradite soffia implacabile l’umido scirocco, dagli arabi chiamato “shurùq”, termine che dà il titolo al libro. E’ il vento dominante in città che, come nel deserto, spira nel nuovo ecosistema, il deserto urbano, prodotto dalla rincorsa spasmodica di un esagerato benessere individuale.
Periferie di città e periferie esistenziali, dunque. Situazioni dolorose comuni, spesso portate all’attenzione dell’opinione pubblica dai mass media, che tuttavia poco ci scalfiscono. Ma Enzo Ferrari riesce a suscitare nel lettore pietà e senso di colpa per quello che potrebbe fare e non fa, grazie al suo atteggiamento garbato, rispettoso dell’altrui dolore, in virtù del quale egli presenta, mostra ma non giudica.
Il linguaggio è asciutto, scarno, adatto alle vicende narrate, privo di inutili orpelli. Le descrizioni sono poche, essenziali, scarsi gli aggettivi, eppure i personaggi sono perfettamente tratteggiati.
L’autore informa: “Le storie sono frutto di fantasia, ma d’inventato non c’è nulla”.
edit@ Casa Editrice & Libraria, Taranto, 2017.
Undici racconti brevi che narrano di vite e di dignità smarrite a causa della perdita del lavoro, della separazione dal coniuge, di un clichè imposto dalla famiglia e mai accettato. Solitudini che si trascinano nel grigiore di una quotidianità mediocre, insoddisfacente, abbruttente. Solitudini di vite naufragate per circostanze avverse, impreviste e imprevedibili.
E l’autore ci presenta la solitudine e la mortificazione del padre disoccupato e separato, che osserva di nascosto la figlioletta all’uscita da scuola. La solitudine dovuta all’incomprensione e alla mancanza di coraggio del fallito che per tutti si finge uomo arrivato. La solitudine dell’operatrice del call center, che lavora giornate intere per poche centinaia di euro al mese, e che pure non se la sente di chiudere la telefonata e accoglie un’altra solitudine, quella della vecchietta senza più congiunti, che trova compagnia e interlocutori solo in quella categoria di lavoratori. La solitudine e il rimpianto di chi constata il fallimento del proprio matrimonio, di chi scopre nella propria compagna di vita un’estranea, addirittura una nemica e, al contrario, la solitudine e lo smarrimento di chi, invece, ha perso la propria compagna di vita ed è rimasto completamente solo. Addolora la solitudine e la delusione del genitore ormai anziano, che ha dedicato la sua vita di sacrifici all’unico figlio per permettergliene una migliore, figlio che non vede mai. E’ pertanto costretto a ricorrere allo stratagemma di regalare una piccola somma di denaro alla nipotina per incentivare le visite del figlio e riuscire così a vederla più spesso.
I personaggi si muovono come al rallentatore, in periferie desolate e desolanti, in fatiscenti case popolari di una città che ha conosciuto tempi migliori. E si intuisce che questa città è Taranto, dove l’autore è nato e vive, anche se egli non lo dice espressamente, come a lasciare intendere che di tali periferie è pieno il mondo! E così davvero è, se si considera che i temi della separazione, della perdita del lavoro o del lavoro saltuario e mal retribuito, della povertà che ne deriva, dell’abbandono affettivo degli anziani non sono prerogativa di un determinato territorio.
Le luci e i suoni di una società consumistica, falsa e ormai inarrivabile, fanno da sfondo a tanto squallore. E nell’ultimo racconto, quasi a tirare un respiro di sollievo e come per aprire un varco alla speranza, da un promontorio si scorge l’azzurro del mare con in primo piano il viola delle orchidee selvatiche.
Su queste esistenze tradite soffia implacabile l’umido scirocco, dagli arabi chiamato “shurùq”, termine che dà il titolo al libro. E’ il vento dominante in città che, come nel deserto, spira nel nuovo ecosistema, il deserto urbano, prodotto dalla rincorsa spasmodica di un esagerato benessere individuale.
Periferie di città e periferie esistenziali, dunque. Situazioni dolorose comuni, spesso portate all’attenzione dell’opinione pubblica dai mass media, che tuttavia poco ci scalfiscono. Ma Enzo Ferrari riesce a suscitare nel lettore pietà e senso di colpa per quello che potrebbe fare e non fa, grazie al suo atteggiamento garbato, rispettoso dell’altrui dolore, in virtù del quale egli presenta, mostra ma non giudica.
Il linguaggio è asciutto, scarno, adatto alle vicende narrate, privo di inutili orpelli. Le descrizioni sono poche, essenziali, scarsi gli aggettivi, eppure i personaggi sono perfettamente tratteggiati.
L’autore informa: “Le storie sono frutto di fantasia, ma d’inventato non c’è nulla”.