Commento critico a “La tigre nel mio giardino” di Maria Beatrice Masella, Edigrafema, Policoro (MT), 2021
Un libro che si legge tutto d’un fiato ma non solo per conoscerne l’epilogo, perché coinvolge, prende, rende partecipi, forse protagonisti. Margherita racconta la sua storia di adolescente qualunque, negli anni ’70, ma non in una famiglia qualunque.
La madre, bolognese, ha sposato un uomo pugliese e, nonostante lo ami e gli sia devota, non riesce a rompere il legame affettivo con la sua città natale che rimpiange, pur non ammettendolo neanche a sé stessa. Il padre, un brav’uomo, non è un qualunque operaio; lavora nell’impianto siderurgico di Taranto, che non è una qualunque città italiana.
Margherita narra con apparente leggerezza la sua vita di studentessa liceale e di sportiva. Ci parla dei suoi amori adolescenziali, delle prime trepidazioni, delle cocenti delusioni, dei “filoni” a scuola nelle belle giornate primaverili. Il tutto in una città bagnata da un mare splendido, che lei adora, dal quale non riesce a separarsi neanche d’inverno; un mare che deve sentire sulla pelle, che deve respirare, con la tramontana gelida o con l’appiccicoso scirocco; un mare che percepisce salvifico (“Scivolo sulla superficie rossa dell’acqua, liscia e densa come olio e mi ripulisco dalla confusione delle parole”) come protezione dal “drago” che incombe sulla città e domina la vita dei suoi abitanti, un “drago” che tiranneggia poichè dà da vivere ma, in cambio, esige vite, come nei miti greci. “Mi sveglio sempre nello stesso momento, quando la luce del drago mi abbaglia, le palpebre ancora chiuse. Un attimo prima di aprire gli occhi il suo tanfo si infila nelle narici. Rimango spaventata eppure ammirata di fronte alle sue bocche di fuoco”.
Infatti, i fumi dell’impianto siderurgico soffocano la città, polveri rosse la ricoprono, soprattutto nel quartiere Tamburi, a ridosso dell’industria, dove Margherita trascorre i primi anni di vita. Gli operai muoiono e l’angoscia per la sorte del padre avvelena, subdola, i suoi anni giovanili turbati anche dal rapporto estremamente conflittuale con la sorella minore, di cui è gelosa.
Sentimenti contrastanti si combattono nella giovane Margherita, amore (“Lo spettacolo del sole che scende lentamente sull’acqua è ogni volta nuovo”) e odio per la sua città, spensieratezza nelle ore trascorse con alcuni compagni di classe e apprensione per il timore che la madre voglia tornare a Bologna (“… Quando sarebbe accaduto? Ce ne saremmo andati tutti? E il mare? Si può vivere senza il mare?”), desiderio di condivisione con la sorella e frustrazione per l’incapacità di farlo.
Molti e profondi gli spunti di riflessione, buttati qui e là come per caso: “Sarebbero passati molti anni prima che sposassi l’idea che i libri devono viaggiare, proprio come le persone, e se poi alla fine non tornano, pazienza… Non è importante chi li possiede nella libreria ma chi li custodisce in un luogo intimo della coscienza…” e ancora “Esiste una protesi per rimettere in piedi una madre che soffre?”.
Margherita crescerà in fretta, dovrà affrontare gli eventi drammatici che travolgeranno lei e la sua famiglia. Li supererà, andrà via da Taranto, ci ritornerà da adulta con un’amara consapevolezza (“Qui non cambia mai nulla”), sempre lacerata dal dolore causatole dallo scempio che ancora fa il “drago” ma travolta dall’amore struggente per la sua città martoriata (“Io e Luca ce ne stiamo seduti per terra sul balcone con la schiena appoggiata al muro scrostato, per ricevere la brezza marina sul volto e respirarla fino in fondo”).
Anche i titoli dei capitoli sono l’attestazione del legame profondo che la protagonista ha con Taranto, “Mirto”, “Mentuccia”, “Basilico, “Origano”. Il primo è un arbusto caratteristico della macchia mediterranea; le altre sono erbe aromatiche tipicamente e comunemente usate in cucina. Il loro profumo evoca immediatamente il mare, le dune costiere, gli spaghetti al sugo fresco di pomodoro…
La prosa è scorrevole, talvolta poetica, ma di una poesia leggera, discreta, che esalta il sentimento d’amore verso la città natale e i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza.
“La tigre nel mio giardino” è un libro che tutti i tarantini dovrebbero leggere, nel quale non potranno non riconoscersi. Ogni tarantino è Margherita, diviso a metà fra l’odio per il “drago”, che tuttora semina morte, e l’amore viscerale per una città dalla bellezza struggente, pur nella consapevolezza rassegnata che “noi meridionali saliamo per andare al Nord e scendiamo per tornare al Sud, è stato sempre così. In alto e in basso, su e giù, civiltà divise da un ascensore invisibile”.
Ester Cecere
Un libro che si legge tutto d’un fiato ma non solo per conoscerne l’epilogo, perché coinvolge, prende, rende partecipi, forse protagonisti. Margherita racconta la sua storia di adolescente qualunque, negli anni ’70, ma non in una famiglia qualunque.
La madre, bolognese, ha sposato un uomo pugliese e, nonostante lo ami e gli sia devota, non riesce a rompere il legame affettivo con la sua città natale che rimpiange, pur non ammettendolo neanche a sé stessa. Il padre, un brav’uomo, non è un qualunque operaio; lavora nell’impianto siderurgico di Taranto, che non è una qualunque città italiana.
Margherita narra con apparente leggerezza la sua vita di studentessa liceale e di sportiva. Ci parla dei suoi amori adolescenziali, delle prime trepidazioni, delle cocenti delusioni, dei “filoni” a scuola nelle belle giornate primaverili. Il tutto in una città bagnata da un mare splendido, che lei adora, dal quale non riesce a separarsi neanche d’inverno; un mare che deve sentire sulla pelle, che deve respirare, con la tramontana gelida o con l’appiccicoso scirocco; un mare che percepisce salvifico (“Scivolo sulla superficie rossa dell’acqua, liscia e densa come olio e mi ripulisco dalla confusione delle parole”) come protezione dal “drago” che incombe sulla città e domina la vita dei suoi abitanti, un “drago” che tiranneggia poichè dà da vivere ma, in cambio, esige vite, come nei miti greci. “Mi sveglio sempre nello stesso momento, quando la luce del drago mi abbaglia, le palpebre ancora chiuse. Un attimo prima di aprire gli occhi il suo tanfo si infila nelle narici. Rimango spaventata eppure ammirata di fronte alle sue bocche di fuoco”.
Infatti, i fumi dell’impianto siderurgico soffocano la città, polveri rosse la ricoprono, soprattutto nel quartiere Tamburi, a ridosso dell’industria, dove Margherita trascorre i primi anni di vita. Gli operai muoiono e l’angoscia per la sorte del padre avvelena, subdola, i suoi anni giovanili turbati anche dal rapporto estremamente conflittuale con la sorella minore, di cui è gelosa.
Sentimenti contrastanti si combattono nella giovane Margherita, amore (“Lo spettacolo del sole che scende lentamente sull’acqua è ogni volta nuovo”) e odio per la sua città, spensieratezza nelle ore trascorse con alcuni compagni di classe e apprensione per il timore che la madre voglia tornare a Bologna (“… Quando sarebbe accaduto? Ce ne saremmo andati tutti? E il mare? Si può vivere senza il mare?”), desiderio di condivisione con la sorella e frustrazione per l’incapacità di farlo.
Molti e profondi gli spunti di riflessione, buttati qui e là come per caso: “Sarebbero passati molti anni prima che sposassi l’idea che i libri devono viaggiare, proprio come le persone, e se poi alla fine non tornano, pazienza… Non è importante chi li possiede nella libreria ma chi li custodisce in un luogo intimo della coscienza…” e ancora “Esiste una protesi per rimettere in piedi una madre che soffre?”.
Margherita crescerà in fretta, dovrà affrontare gli eventi drammatici che travolgeranno lei e la sua famiglia. Li supererà, andrà via da Taranto, ci ritornerà da adulta con un’amara consapevolezza (“Qui non cambia mai nulla”), sempre lacerata dal dolore causatole dallo scempio che ancora fa il “drago” ma travolta dall’amore struggente per la sua città martoriata (“Io e Luca ce ne stiamo seduti per terra sul balcone con la schiena appoggiata al muro scrostato, per ricevere la brezza marina sul volto e respirarla fino in fondo”).
Anche i titoli dei capitoli sono l’attestazione del legame profondo che la protagonista ha con Taranto, “Mirto”, “Mentuccia”, “Basilico, “Origano”. Il primo è un arbusto caratteristico della macchia mediterranea; le altre sono erbe aromatiche tipicamente e comunemente usate in cucina. Il loro profumo evoca immediatamente il mare, le dune costiere, gli spaghetti al sugo fresco di pomodoro…
La prosa è scorrevole, talvolta poetica, ma di una poesia leggera, discreta, che esalta il sentimento d’amore verso la città natale e i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza.
“La tigre nel mio giardino” è un libro che tutti i tarantini dovrebbero leggere, nel quale non potranno non riconoscersi. Ogni tarantino è Margherita, diviso a metà fra l’odio per il “drago”, che tuttora semina morte, e l’amore viscerale per una città dalla bellezza struggente, pur nella consapevolezza rassegnata che “noi meridionali saliamo per andare al Nord e scendiamo per tornare al Sud, è stato sempre così. In alto e in basso, su e giù, civiltà divise da un ascensore invisibile”.
Ester Cecere