"DALL'INDIA A LAMPEDUSA. SOSTE DI VIAGGIO" DI ESTER CECERE
a cura di Maria Luisa Tozzi
a cura di Maria Luisa Tozzi
Se l’opera di Ester Cecere riporta alla classicità narrativa (a Cuore di De Amicis, ad esempio) e alla tradizione orale, con un’intelligente contaminazione dei due generi, la sua forza si dichiara con una provocazione culturale, che interroga l’indifferenza, la superficialità, il viaggio mediatico.
Il dire di Cecere si snoda lentamente, nella pur fitta descrizione dei luoghi incontrati; è didascalico; ripassa, nei particolari meraviglianti, remoti alla nostra quotidianità, un susseguirsi di vicende, senza tuttavia creare aspettative romanzesche, orientate ad una conclusione: ciò che è raccontato - emarginazione, spiritualità, povertà, bellezza dei luoghi, frastuono - costringe a dare importanza alle cose essenziali; all’uomo.
Il rovistare paziente e vigile nella miseria, inconcepibile per l’Occidente, giustifica soste curiose - profonde in disponibilità, partecipi in generosità - e accompagna intenzionalmente (quasi un passa parola sulla povertà più povera) il lettore, con delicatezza e trasporto affettivo, al problema di fondo.
Il racconto, anche sotto il profilo letterario, si fa dunque complice di un’oralità, che, in apparenza tramontata, potrebbe offrire soluzioni per ricostruire il cerchio della comunicazione.
Nelle favole, il solutore magico era colui che aboliva la mancanza, ragione del viaggio e delle aspettative del protagonista; qui la forza magica del cammino e della soluzione sono un tutt’uno con l’autrice, sicura nel trasmettere concretamente fiducia all’uomo, pur davanti all’indifferenza disperata di un mondo globalizzato.
L’opera è da proporre come lettura meditata nella Scuola: e per gli inevitabili accostamenti letterari e per la valenza multidisciplinare; ma soprattutto per l’indagine, imprescindibile, sugli attuali stili di vita; per un’educazione, cioè, che induca a superare i propri recinti e a far comprendere avvisaglie, che sono sull’uscio di casa, battono insistentemente alla porta.
Maria Luisa Tozzi
Il dire di Cecere si snoda lentamente, nella pur fitta descrizione dei luoghi incontrati; è didascalico; ripassa, nei particolari meraviglianti, remoti alla nostra quotidianità, un susseguirsi di vicende, senza tuttavia creare aspettative romanzesche, orientate ad una conclusione: ciò che è raccontato - emarginazione, spiritualità, povertà, bellezza dei luoghi, frastuono - costringe a dare importanza alle cose essenziali; all’uomo.
Il rovistare paziente e vigile nella miseria, inconcepibile per l’Occidente, giustifica soste curiose - profonde in disponibilità, partecipi in generosità - e accompagna intenzionalmente (quasi un passa parola sulla povertà più povera) il lettore, con delicatezza e trasporto affettivo, al problema di fondo.
Il racconto, anche sotto il profilo letterario, si fa dunque complice di un’oralità, che, in apparenza tramontata, potrebbe offrire soluzioni per ricostruire il cerchio della comunicazione.
Nelle favole, il solutore magico era colui che aboliva la mancanza, ragione del viaggio e delle aspettative del protagonista; qui la forza magica del cammino e della soluzione sono un tutt’uno con l’autrice, sicura nel trasmettere concretamente fiducia all’uomo, pur davanti all’indifferenza disperata di un mondo globalizzato.
L’opera è da proporre come lettura meditata nella Scuola: e per gli inevitabili accostamenti letterari e per la valenza multidisciplinare; ma soprattutto per l’indagine, imprescindibile, sugli attuali stili di vita; per un’educazione, cioè, che induca a superare i propri recinti e a far comprendere avvisaglie, che sono sull’uscio di casa, battono insistentemente alla porta.
Maria Luisa Tozzi