“L’urlo di denuncia” tra realismo e speranza nel libro di Ester Cecere “Non vedo, non sento e…”
di Domenico Pisana
Il Porticciolo. Rivista di informazione, approfondimenti e notizie di cultura, arte e società.
Rubrica LO SCAFFALE DEL LIBRO. Edizioni Il Porticciolo. Anno X-Numero 2-Giugno 2017.
Ester Cecere è sicuramente una poetessa molto sensibile, attiva ed impegnata, una voce interessante e rilevante che dà alla poesia quasi il valore di una missione di vita.
E’ certo, dunque, che per l’autrice tarantina la poesia non è un passatempo. E’ un’autrice che con i suoi versi cerca di entrare dentro le macerie della vita per ricostruirla, rianimarla, perché il poeta, in fondo, è anche uno che “ri-costruisce” e che butta un salvagente per se stesso e per gli altri, proprio come si legge in alcuni versi di Kahlil Gibran: “La poesia è il salvagente / cui mi aggrappo / quando tutto sembra svanire. / Quando il mio cuore gronda / per lo strazio delle parole che feriscono, / dei silenzi che trascinano / verso il precipizio…”.
Il poeta è un ricostruttore, e con i suoi versi è chiamato a suscitare domande di senso sulla necessità per l’uomo di “ritrovare l’anima” rubata, perché una persona senz’anima può fare solo barbarie.
E’ all’interno di questa visione che si inserisce il libro di poesie Non vedo, non sento e…, WIP Edizioni, Bari, 2017, con il quale la poetessa, rifuggendo dal solipsismo intimistico, sembra volere aspirare al passaggio da una “poesia ad intra e quasi elitaria”, ad una “poesia ad extra e per tutti”, capace, così, di dare un contributo di umanesimo alle relazioni del nostro tempo.
La Cecere avverte quasi il bisogno di creare, con i suoi versi, un ponte di unione con l’“interioritas” di chi li legge; rende, insomma, il suo poetare un veicolo capace di dire parole non “sulla” vita ma “di” vita, e di farsi voce di chi non ha voce, di chi soffre, come testimoniano del resto le sue iniziative di devolvere i proventi delle vendite dei suoi libri nella direzione di gesti di solidarietà.
Chiaramente una poesia nel mentre nasce, muore, se non c’è chi la legge; e nel mentre muore risorge, se qualcuno la fa propria.
La poesia di Ester Cecere è da far propria perché è significativa, parla al cuore, offre una dichiarazione di poetica, una poetica del dolore e di denuncia; una poetica che trasforma la parola in un linguaggio detto in una situazione vissuta, in un contesto di relazione.
Leggendo questo libro mi è venuto in mente il dipinto del pittore norvegese Edvard Munch, “L’urlo” del 1893, del quale lo stesso pittore racconta la genesi: «Una sera passeggiavo per un sentiero, da una parte stava la città e sotto di me il fiordo... Mi fermai e guardai al di là del fiordo, il sole stava tramontando, le nuvole erano tinte di rosso sangue. Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi questo quadro, dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando. Questo è diventato L'urlo»
Il libro Non vedo, non sento e… rappresenta “l’urlo di dolore” di Ester Cecere per il male dilagante in questo nostro mondo contemporaneo, un urlo che trova spazio anche nello stesso titolo della raccolta, titolo che, in verità, rappresenta una provocazione forte verso chi non vuol vedere e sentire o chiude gli occhi sul male che assale l’esistenza umana.
L’autrice, infatti, al contrario di chi chiude gli occhi sulla realtà o mette la testa sotto la sabbia, “vede, sente” e soffre, e la sua anima si fa “luogo della poiesis” in una prospettiva coscienziale; il suo sguardo di poetessa diventa la “syneidesis” greca, ossia “visione d’insieme” del suo sguardo interiore con cui essa coglie se stessa e la sua collocazione nel mondo.
Il poetare della Cecere, in questo libro, scorre come “voce di canto”: “Nescit vox missa reverti” affermava lo scrittore romano Catone nell’antica Roma: Una voce, una volta emessa, non può più tornare indietro. E la voce di Ester Cecere non torna più indietro perché tende ad innalzarsi al cielo, a rivolgersi a Dio, alla coscienza universale dell’umanità e alle singole coscienze dei suoi lettori per porre domande sui grandi temi dell’esistenza, sul perché del male che imperversa nella nostra contemporaneità:
Dimmi Dio / chi ha ragione ? / Rispondimi Allah, dov’è il torto? / E’ forse negli immoti visi / bianchi di polverose macerie / degl’inconsapevoli bimbi? / E’ forse negl’increduli volti / da strisce rosse rigati / di creature innocenti? (in Dimmi Dio, rispondimi Allah).
E ancora: Da dove vengono le lacrime / se stagni secchi / sono gli occhi, / legnoso nòcciolo / il cuore / e l’anima /l’esuvia d’un serpente? …Sono le lacrime del mondo, /cadute su di un viso / duro come cuoio / per donargli ancora / un po’ di umanità (in Da dove vengono le lacrime?)
Ecco, i versi della Cecere diventano più marcatamente linguaggio detto all’interno di situazioni sociali drammatiche e in contesti di relazione, se è vero che un percorso dialettico, tormentato, carico di forte realismo si coglie nella varie sezioni di questo suo ultimo libro, dove le liriche si muovono con una “impronta realista” e di “poesia civile”; se è vero, altresì, che i suoi versi trovano la loro fonte di ispirazione nel fenomeno dell’emigrazione degli italiani, nel dramma dei senzatetto o in vicende come quelle in cui si sono trovati coinvolti la giovanissima Francesca, deceduta in un incidente stradale, il bimbo Vitaliano abbandonato presso l’Ospedale degli Innocenti a Firenze, ed ancora le popolazioni coinvolte nel terremoto del 2016.
Lo sguardo della poetessa è lo sguardo di chi si mette dalla parte dei sofferenti: ora la bimba usata come kamikaze in Nigeria, ora i bimbi deceduti in Siria a causa del gas; ora Hashem Shabaani, poeta iraniano pacifista impiccato, ora Aylan, migrante di tre anni trovato morto sulla spiaggia di Bodrum, ora le donne africane, le donne prive di libertà, le spose-bambine, le donne che temono per la loro vita.
Il rapporto tra poesia ed etica nel libro di Cecere
C’è nel libro di Ester Cecere uno stretto rapporto tra poesia ed etica. Si tratta di un rapporto vitale, da non intendersi moralisticamente come tentativo dell’autrice di voler attribuire alla poesia il compito di dettare norme etiche, ma come bisogno di dare alla sua poesia una funzione sociale comunicativa, stabilendo una dimensione dialogica tra la parola poetica e la realtà, tra l’io poetico e la volontà di apertura all’altro, per condurlo - direbbe anche Paul Celan - alla riflessione.
In questa raccolta poetica non vanno dunque cercati il virtuosismo e la grazia formale, ma le sofferenze provocate nell’umanità dal “tradimento della bellezza”; in questo senso, tutte le poesie del volume non si staccano mai dalla drammaticità della vita e della storia contemporanea nelle sue articolazioni sociali, politiche ed etiche, del resto non è possibile pensare alla poesia staccata dal mondo. Il sommo Dante è forse pensabile staccato dalla politica di Firenze, dalle tensioni tra Chiesa e Impero, tra guelfi e ghibellini, dai dibattiti sociali, culturali e dai fatti della sua epoca? Quando il poeta Auden in un suo verso afferma “Che perfino il tremendo martirio deve compiere il suo corso”, non fa proprio un richiamo esplicito alla situazione storico-politica del suo tempo e al problema della tirannide fascista?
In questo libro di poesia non è possibile pensare Ester Cecere staccata da tutto quanto sta accadendo nella nostra contemporaneità a livello di guerre, migrazioni, intolleranze, sfruttamento, corruzione, prostituzioni, fanatismi religiosi, imbarbarimento delle relazioni; i suoi versi sono la sua “coscienza pensante” che affonda il bisturi nelle piaghe della realtà non per compiere un esercizio letterario o per dedicarsi alla celebrazione dell’estetica, dell’arte poetica per l’arte poetica, o peggio per sollazzarsi ad imbrattare carta per mero piacere estetico interiore o per suonare la cetra ai piedi del proprio sé, ma per alzare un “urlo di dolore” di munchiana memoria, quasi alla stregua del poeta civile che sente il bisogno, attraverso la poesia, che è linguaggio dell’anima, dello spirito, linguaggio che traduce la condizione dell’esistenza, di richiamare universalmente ogni uomo sulla necessità di costruire un nuovo umanesimo nel nostro tempo.
Dunque i versi di Ester Cecere parlano il linguaggio della verità libera da residui ideologici e moralistici, ponendosi come “voce critica” che riesce a leggere la complessità del nostro vivere quotidiano e dei grandi drammi del mondo contemporaneo.
Paure, proclami di pace, ansie di riscatto, grida di giustizia si dispiegano qua e là lungo tutta la tessitura lirica di questa raccolta, costruendo un discorso poetico nel quale metamorfosi ed antinomie, vita e morte, situazioni e difficoltà, passato - presente- futuro, miraggi e utopie, introspezioni e rimpianti fanno risaltare la fenomenologia della nostra terrestrità fragile e confusa, limitata e spaesata.
I versi di Non vedo, non sento e… fanno di Ester Cecere una “poetessa di forte impronta esistenzialista” che si mette dalla parte di coloro che vengono a volte considerati “scarti umani”, individui “gettati nel mondo” direbbe Heidegger, a causa di una esistenza inautentica; insomma la poesia della Cecere si snoda come fenomenologia dell’esistenza perché coglie l’uomo nella sua situazione singolare e nella concretezza della vita vissuta; e, così, l’identità, le differenze, il destino, la morte, il futuro diventano i lemmi di un discorso poetico che non smette - luzianamente parlando - di interrogare il piano divino dell’essere e la verità oggettiva.
Scriveva Elio Vittorini: “La poesia è per questo poesia: perché sta legata alle cose da cui ha avuto origine, e si può riferirla, se nasce dal dolore, ad ogni dolore...”.
E’ proprio questo ciò che troviamo nei versi di Ester Cecere: una poesia che nasce dal suo dolore interiore e che s’alza verso il cielo come un “urlo di dolore”; e qui, allora, appare evidente come il leit motiv di questo libro sia il costante rapporto tra interiorità e verità: la poesia di Ester Cecere non è infatti una costruzione lirica della mente, ma cerca la verità. E quale verità?:
– la “verità di senso”: la sua è una poesia che invita il lettore a scoprire la dimensione degli accadimenti della vita; tende a scuotere le coscienze in questa fuga continua di giorni: “Squassa il boato / l’aria e le coscienze. / All’unisono tremano/ la terra e i cuori./ Incredulo scheletro / fuma disperazione l’autobus. / Schegge di vetro / in occhi accecati. / Di sangue urla mute /su bocche atterrite…” (in Attentato);
– e poi la “verità morale”: fare poesia implica per la Cecere mettere l’uomo del nostro tempo nella condizione di discernere il bene e il male che è dentro di lui, proprio perché - direbbe Quasimodo - l’uomo nella sua verità non è altro che bene più male; l’uomo contemporaneo - aggiunge la Cecere - sembra aver dimenticato il bene per cedere e piegarsi al male, trasformandosi in un nuovo Erode: Erode è tornato! / A Damasco, / ancora una volta è re. (in Erode è tornato)
Erode è il simbolo del potere che rimane di pietra di fronte al corpicino di Aylan Sulla battigia, / dalle onde accarezzato, (in Dalla marea adagiato); è il simbolo di quella tracotanza maschile che si nasconde Sotto gonne troppo corte (in Rosso richiamo) e che fa strage di bimbi lasciati a centinaia, in fila, con Chiusi gli occhi. / I corpi intatti. / D’ogni età / fanciulli e fanciulle a respirare la morte (in Erode è tornato).
Dunque è all’interno dell’orizzonte di queste tragiche verità che ogni evento della vita può essere meglio compreso nel suo più profondo significato, come nel caso del dolore e del male che denuncia Ester Cecere, e che non è da identificarsi con il pessimismo, ma da interpretarsi come forza che ha avuto sempre la capacità di frantumare qualsiasi catena, forza che sta alla base della verità.
Nel concludere non si può non portare all’attenzione l’ultima sezione del libro. Qui compare una luce in mezzo all’oceano di oscurità che l’autrice ha ampiamento denunciato nelle sezioni precedenti del volume.
Improvvisamente, /…/ mi sei apparsa. / Netta argentea immensa scrive la Cecere nella poesia “Improvvisamente, la luna” “…E ho compreso…” conclude nel verso finale. Ed ancora, in “Sorridigli”, afferma: Il sorriso / è raggio / che squarcia il temporale, / è calore /che gocce di pioggia asciuga, / è mano / che sicura afferra, / è presenza / silenziosa e salda…
Quella che invoca Ester Cecere, nel finale della sua raccolta di poesie, è una luce che si muove tra realtà ed utopia.
Diceva Joseph Joubert :“E’ meglio offrire o ricevere una goccia di luce piuttosto che un oceano di oscurità.” Credo che ben si attagli questa citazione al libro di Ester Cecere Non vedo, non sento e…
Una goccia di luce, un oceano di oscurità. Quanta differenza tra la goccia e l’oceano: piccola, delicata, quasi invisibile, trasparente la goccia; immenso, abissale, profondo, increspato e minaccioso l’oceano.
Spesso la nostra esistenza umana è un oceano di oscurità; quando questo oceano di oscurità si abbatte sull’uomo, questi ne avverte il dolore, ne viene travolto con grande rumore dentro e fuori di sé.
Quando invece l’esistenza umana è bagnata da una goccia di luce, questa goccia, che spesso passa quasi inosservata, può aprire alla speranza. Forse, solo quando le gocce di luce diventano più di una, allora ci accorgiamo di esse, cominciamo a guardarle, interpretarle e a capirne il valore e la portata.
Il libro della Cecere descrive un quadro di oscurità, ma ci apre un piccolo orizzonte, sembra dirci che non occorre disperare, perché c’è sempre una goccia di luce che non solo si desidera, ma viene anche offerta: una goccia di luce, piccola nelle dimensioni, ma tanto grande da avere il potere di risollevare la vita dell’uomo, di illuminare il suo volto, i suoi occhi, la sua mente e di dare refrigerio e speranza al suo cuore, aiutandolo ad uscire dal naufragio dell’oceano.
La Cecere, nel suo libro, coglie questa goccia di luce nel sorriso, nell’affetto, nella disponibilità e nel dono dell’amore; coglie gocce di luce nel riscatto della dignità perduta di uomini, donne, bambini, nel luccichio delle stelle in una notte di luna.
La poetessa affida ad una “bottiglia” (Il cuore / in una bottiglia ho rinchiuso, in Il cuore in una bottiglia) questo suo sogno e desiderio quasi a voler auspicare la formazione di un nuovo oceano: l’oceano della luce, del sorriso che brilla, che dà calore, che seda le tempeste della vita, che diventa una bussola sui sentieri della quotidianità. E’ questo l’orizzonte sintagmatico che alla fine ci rimane del libro della Cecere: desiderare di cogliere la luce in mezzo alla oscurità delle
tenebre.
Ricorrendo ora ad incisive metafore, ora ad accostamenti semantici, ora a lemmi fortemente allusivi e a fotogrammi connotativi che figurano nella partitura strutturale di tutta la silloge, la poetessa sa darci il suo cuore con un codice linguistico rapido, vivace e mai monotono; con un andamento caratterizzato da una forte tensione emotiva ed una notazione psicologica matura e tormentata.
Come diceva Lucilio, “Dall’interno del cuore io traggo il verso”, così mi pare che in queste parole possa trovare sintesi la raccolta poetica di Ester Cecere: senza il cuore, infatti, ogni poesia di questo libro rischierebbe di essere un mero giuoco di parole che potrebbe incantare senza però comunicare nulla. E la poetessa Ester lo dona ai suoi lettori non per incantare, ma per comunicare senza pretese di alcun genere, e con la consapevolezza che - come direbbe Charles Bukowski -“Scrivere poesie non è difficile. Difficile è viverle.”.