RECENSIONE A CURA DI PAOLO DE STEFANO
"Come foglie in autunno" Come desideri di luce dal Corriere del Giorno di Taranto, 13 aprile 2012 Ester Cecere è tornata, dopo una prima esperienza, alla poesia con un gruppo di liriche raccolte in “Come foglie in autunno”; con prefazione di Ninnj Di Stefano Busà per i tipi editoriali di “Tracce” di Pescara, gennaio 2012. Nella specifica prefazione si legge: “Gli affetti sono sempre in primo piano o sullo sfondo:…..E appaiono come desideri di luce, progettano episodi crepuscolari in cui….restino saldi nella memoria e inalterati i sentimenti necessari al disgelo dell’anima, alla sua evoluzione spirituale e umana”. D’accordo, ma qualche altra osservazione è bene aggiungere. Intanto l’unità spirituale che caratterizza la poesia della Cecere ha due coordinate; una espressamente segnata già dal titolo della raccolta: “Come foglie in autunno” che ricalca il “Come le foglie” non del Giacosa, ma il verso ungarettiano già noto. D’altra parte l’ultima lirica della raccolta è dedicata al poeta Ungaretti e proprio ivi è da ricercare l’altra coordinata: “Dolore del mio dolore./Nella piena maturità/ora leggendoti,/ricordo d’averti sempre udito”. Verso che rimanda all’ungarettiano: “Ricorderai d’avermi atteso tanto” (La madre). E allora? Qual è l’anima della poesia della Cecere? Nel ricordo? Nella memoria delle sue giornate trascorse fra affetti familiari scomparsi o eclissati; fra immagini della Natura, giammai panteista, ma intimamente ed esistenzialmente vissuta o idealizzata? Ecco la vera genesi della poesia della Cecere: è in un senso solipsistico della esistenza; della sua esistenza che si scontra, che si dibatte con quella altrui come in un atto confessionale e, a volte, ne esce vittima. Giammai tuttavia nella Cecere c’è vittimismo! Nella lirica “Nero”, parola ripetuta più volte, anaforicamente, vi è la cupa solitudine di un’anima sognatrice nella quale il sogno si esaurisce nella voce interrogativa della fanciullezza. Altra volta la vita della poetessa è simile alla “Zattera”, altra volta al “Ghibli”, altra volta ancora ad una “stella… fulgida e brillante”; altra volta per l’umana ipocrisia e ingratitudine alla “Nebbia”. Non manca, tuttavia, in tale caleidoscopio del cuore, un sentimento religioso e casto dell’essere; un rivolgersi alla Madre di Dio, alla Madonna di Lourdes; oppure avvertire l’incanto fanciullesco di un presepe. “Profumo di pioggia/nell’aria è rimasto./Profumo d’infanzia/nel cuore.” Ecco: la poesia della Cecere si snoda, o si sviluppa, tra quelle coordinate di cui parlavo: tra un sentimento doloroso dell’essere (tipico ungarettiano) e un senso affettuoso dell’essere che si traduce in speranza di vita e di sospirate certezze. D’altra parte la stessa autrice ha dedicato le sue poesie “A tutti coloro che con apprezzamenti sinceri ed affettuosi mi hanno spronato a continuare a scrivere”. Una scrittura metricamente, stilisticamente legata alla varietà delle odierne sillabazioni ove non mancano i sussulti metaforici come in “Notte d’agosto”. |
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