Recensione a cura di Franco Campegiani
"Come foglie in autunno" di Ester Cecere (Roma, Libreria Rinascita Agosta, 25 novembre 2012) Il libro che questa sera presentiamo, Come foglie in autunno di Ester Cecere, mi è particolarmente caro, in quanto è stato pubblicato da Tracce Edizioni si può dire in contemporanea, quasi in parto gemellare, con il mio Ver sacrum, nella stessa collana Magister, diretta da Ninnj Di Stefano Busà. La quale tra l'altro ha prefato entrambi i testi poetici. Come foglie in autunno di Ester ha inaugurato la collana, e subito dopo è giunto il mio Ver sacrum, a distanza di pochi giorni. Siamo dunque, io ed Ester, fratello e sorella in poesia. E non soltanto per questi motivi contingenti, ma soprattutto, direi, per la visione del mondo che ci accomuna, legata in qualche modo al Mistero, nonostante la diversità dello stile. Quello di Cecere è un verso libero, asciutto, essenziale e fortemente immaginifico. Non nel senso che dia spazio all'immaginazione fantastica, ma nel senso che fotografa immagini reali. Uno stile pertanto descrittivo ed analitico, dove tuttavia la denotazione assume valenze connotative profonde. La poetessa sembra indulgere sui dettagli non per superficialità o attaccamento morboso, bensì in quanto le superfici non fanno altro che chiamare in causa le profondità. Non altro sono, le superfici, che la parte emergente di quell’iceberg che chiamiamo Essere; il lato conosciuto o conoscibile dei fenomeni, degli eventi comunque immersi nell'inconoscibile. Questo tipo di attenzione alle cose non è propriamente realismo, se con il termine si vuole intendere l'interesse per una realtà ridotta all'aspetto visibile delle cose stesse. Ci troviamo di fronte, piuttosto, ad una sorta di iperrealismo capace di riconoscere nella realtà oggettiva fortissime valenze psichiche. Non si confonda tuttavia l'iperrealismo con il surrealismo che trascina la realtà fenomenica nel mondo interiore: qui la realtà porta dentro se stessa i segni dello spirito. C'è, per essere più espliciti, un ché di gnomico, di aforistico, in questo tipo di realismo, come se le verità e gli insegnamenti fossero direttamente ricavati dagli eventi della natura e della vita stessa. Seppure in queste pagine Ungaretti viene espressamente e più volte chiamato in causa, qui manca il soggettivismo che caratterizza tanta poesia ermetica. L'occhio che molto spesso sembra sovrastare dall'alto la scena non è quello dell'uomo, ma direi quello di un dio interno, più che esterno, alle cose stesse. In Sciroccata d'autunno quest'occhio s'identifica con i gabbiani che "sovrani, signori, / su tutto dominano / con alto volo sicuro". C'è, nella poesia della Cecere, una forte coscienza della spazialità unita ad un senso della temporalità amplificato e sostanzialmente statico (tipicamente mediterraneo, in fondo), che porta nello spazio-tempo i segni dell'eterno e dell'infinito. In Barriera corallina, ad esempio, vediamo la poetessa sulla spiaggia mentre osserva la guizzante e fosforescente vita del mare. Ed è un trascinamento struggente della fugacità gioiosa dell'esistere verso l'Oltre profondo, verso "il blu, / assoluto, infinito". Accade tuttavia che questa robusta visione s'incrini, e allora si fa tragica l'interrogazione sulla precarietà del vivere e sulla morte, sull'inafferrabilità del Cielo, sui limiti esistenziali avvertiti come soffocanti ed assoluti: "S'accende la luna... / Ma è lontana e distratta". E se i sogni sono vani, a che serve lottare? Molto meglio anestetizzare il cuore con l'acqua del nirvana e dell'indifferenza: "acqua che spenga i sensi. / Acqua che dall'amore / per sempre immunizzi" (così leggiamo in La fonte). Perché attardarsi in retorici ottimismi, in facili illusioni? La poetessa ha di fronte agli occhi un bimbo morto di stenti e riflette: "Nemmeno una stalla / ti accolse. / Non brillò per te la cometa. / Dov'erano il bue e l'asinello / mentre il freddo / i tuoi occhi spegneva?". E di fronte al Presepe, dove "visi dolcissimi / si scambiano amore", lei, disincantata, si chiede: "lo sono lontana. / Sei nato anche per me?". L'albero che d'autunno si spoglia: è questa l'immagine dominante che dà titolo al libro, ed è il simbolo della vita che si logora, fino a stecchire del tutto e a restare senza foglie, senza vitalità alcuna. Sovviene tuttavia alla poetessa il ricordo del padre, scomparso in una scia di preziosi insegnamenti. Lui non c'è più, ma lei non è disperata per questo dolore profondo, che le ha lasciato tracce d'amore indelebili. Versa lacrime amare, ma contenute, e accetta stoicamente, in modo composto, le proprie disgrazie, il destino che solidalmente coinvolge in un dramma universale ogni essere vivente. "Non c'è gioia senza lacrime", commenta la Busà in prefazione, "non vi sono sogni senza la sofferenza del risveglio". Ed è l'armonia dei contrari, la consapevolezza del ruolo svolto dal Male nella costruzione della coscienza. Purtroppo la perversione degli uomini sconvolge questo sano e vitale equilibrio, inaridendo la forza d'animo e dando origine ad un Male più atroce ed intenso di quello naturale e cosmico. Ci sono, nel testo, fotogrammi di situazioni sociali incresciose (come il bimbo denutrito, la ragazzina violata, il dolore dei migranti, eccetera). Ci sono versi amarissimi, dedicati all'ipocrisia, alla falsità, all'inganno, alla presunzione, alla prevaricazione, al raggiro, all'incomprensione, eccetera. E ci sono immagini dolenti, che parlano della fatica di vivere: "Con stanco peso / mi trascino. / Né brezza mi rinfranca. / Né dalla pietraia / ali mi sollevano". Purtroppo l'esistenza pratica condiziona, plagia e ruba l'uomo a se stesso: "Di tutto / il ragno mi svuotò, / di me solo lasciando / un simulacro" (La tela del ragno). Tuttavia, dopo queste anguste visioni, dopo questa nebbia dell'anima, tutto sembra tornare al suo posto. Ed eccomi, dice la poetessa: "Sono ancora qui"; anche se incessante è l'altalena dello spirito, e poco dopo dirà: "Non so se passata è / la burrasca / o pioverà ancora / sul presente". L'esistenza è un viaggio nell'oceano delle illusioni. Se riusciamo ad attraversarle senza naufragare, la nostra essenza brillerà. Il lavoro su noi stessi è fondamentale: "La mia vita ho potato / con cesoie decise. Il rami secchi / e quelli stenti / ho tagliato. / Solo sani germogli / frutti porteranno. / Che siccitosa è la stagione / e arida la terra". E' in sostanza, quella di Ester, la storia di un naufragio più volte subito e più volte superato adottando l'invito ungarettiano: quell'ulissismo che spinge a riprendere il viaggio "come dopo il naufragio un superstite lupo di mare". E scrive: "Della mia barca / solo i resti / a riva sono giunti. / Ne farò una zattera / per navigare / con a bordo l'essenziale". Ed ancora: "Da stagioni difficili / contorto, / robuste radici / nella spaccata terra / affondo / ché il vento di scirocco / non mi abbatta". Emblematica la poesia intitolata Una coperta per il mio nido, dove la perseveranza nell'amore spinge la poetessa a tessere la tela e a ritesserla, come Penelope, nonostante essa si smagli in continuazione. La morale è evidente: se non si crede oltre ogni ragionevolezza nell'amore, esso diviene un'assurda pretesa, una chimera sfuggente, una promessa fredda e lontana: "una stella eterna e siderale", dice la poetessa. Così assistiamo ad un potente risveglio dell'anima, come nella poesia non a caso intitolata Risveglio, dove è scritto: "Solo ora ti vedo", e nel tu possiamo vedere tante cose, tutte comunque indicanti la potenza universale e misteriosa dell'amore. In particolari momenti di grazia affiora la consapevolezza che ogni cosa è abbracciata all'altra, ogni cosa sfuma e vive nell'altra, per cui il Bene ed il Male si compenetrano profondamente. Così il reale può contenere l'irreale, e viceversa. Così l'autunno può avere "il sapore vago della primavera". Così la ballerina del carillon, cessata la musica, può tornare a dormire nello scrigno. E così può affiorare la certezza "che al ritorno del sole / i fiori sboccino ancora". Tutto si accende e si spegne, tutto è in circolo e non c'è nulla di definitivo, mai. Pertanto la morte esiste perché esiste l'immortalità, ed ecco: "Improvviso / un coro di voci. / Sono i miei cari. / Pregano con me. / Erano morti / ma li ho ritrovati". Il ritrovamento più importante è tuttavia quello di se stessi, della propria essenza. O meglio, della via che conduce verso la propria coscienza profonda: "Tra le alghe passeggerei / e nel profondo silenzio / del mare il respiro ascolterei / e del mio cuore le voci". Perché questo avvenga, bisogna superare i limiti esistenziali, andare oltre frontiera, trascendersi: "Gabbiano inquieto / in un mare di sangue, / a terre inesplorate / anelo". Spesso, nella poesia della Cecere, si presenta la problematica del chiuso e dell'aperto mentale. L'uomo, a dispetto di ogni stordimento, vive sostanzialmente solo con se stesso, ma questa solitudine può essere vissuta in due modi distinti: come solipsismo intimistico oppure come compagnia di se stessi, occasione di festa spirituale. A volte vince l'intimismo: "Le finestre aprirei / per ossigenare il cuore. / Ma serrate sono / da robusti ed inviolabili sigilli" (da Aria consumata). Altre volte, invece (da Una terra per ritrovare): "E' preghiera, / il vento tra le fronde / sui monti Sibillini. / E' preghiera, / lo scroscio di ruscelli / fra boschi e valli persi. / E' invito, / il richiamo dell'upupa / all'ombra di benigni campanili. / E nell'immutato silenzio / di secolari chiostri, / Tutti vi ascolto... / e mi ritrovo". La comunione con se stessi è la sola via che può condurre verso la comunione con altri uomini e con il creato intero. Concludo facendo mia una stimolante riflessione svolta dalla Busà in prefazione: "Questa poetica ha punte di pessimismo, ma non è mai oggetto di dolore dilacerante, non si consegna al disagio, al male ineludibili; non si lascia sopraffare dal contingente; lotta, fa sue le regole del gioco secondo le quali la vita va vissuta in funzione della conquista, per la sopravvivenza, nella finalità di un aldilà di Luce che brilli allo stupore del primo mattino... E ci pare una dichiarazione di Fede, di abbandono innocente e incantato, quasi un inno alla vita, perché ne esprima tutta la gratitudine, con lo sguardo rivolto al Trascendente... Un anelito verso l'Alto, un panismo fatto di religiosità e pudore, di candore e abbandono al Mistero". Franco Campegiani |
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