Recensione a cura di Rita Mascialino
Mascialino, R. 2013 Ester Cecere: “Come foglie in autunno”. Pescara: Edizioni Tracce. PREMIO FRANZ KAFKA ITALIA ® III Edizione, Sezione Poesie, Premio Speciale della Giuria: recensione di Rita Mascialino. “Il titolo della raccolta di poesie Come foglie in autunno evoca immediatamente la caducità della vita umana vista nella fase della parabola discendente e non della rinascita – le foglie sono quelle dell’autunno, indicative solo della caduta. La prima poesia, che dà il titolo al volume (13), si riferisce comunque non solo alla caducità della vita in generale e al dolore che ciò provoca psicologicamente agli umani, sempre consci di dover morire per quanto rimuovano per il possibile questa consapevolezza, ma anche e più specificamente alla perdita delle persone care, degli affetti che come le foglie autunnali ad uno ad uno cadono lasciando coloro che restano nudi e spogli di ogni cosa, senza i legami affettivi che fanno sì che un esistere come quello degli umani possa avere un senso, un esistere che procede sotto la spada di Damocle della fine sempre più incombente ed inevitabile. La poetessa si chiede quando verrà l’ora anche per lei di cadere come foglia al suolo e perdere anche la consapevolezza che dà il dolore, perdere tutto. Implicite a ciò sono la domanda sul senso della vita e la risposta che appare completamente disillusa. Non poche sono in questa raccolta le poesie dedicate al ricordo del padre, della madre, di coloro che non sono più. Ci soffermiamo ora un attimo di più sulla stupenda poesia Carillon (14), in cui viene data dalla poetessa un’immagine che racchiude la realtà della vita in pochi magistrali tocchi da artista. La composizione si apre mostrando uno scrigno ancora aperto, al quale viene dato l’ordine di richiudersi come mostra la forma imperativa del verbo. Al suo interno il meccanismo di un carillon con una ballerina che danza al suono di una melodia, una ballerina che finito il suo ciclo di danza – il carillon ha la carica misurata, non suona ininterrottamente – deve tornare a riporsi nello scrigno e cessare di danzare, anch’essa secondo un imprativo, scrigno che diviene per così dire la sua tomba dopo che la musica è finita e gli orchestrali se ne sono andati, dopo che lo scrigno si richiude appunto. La ballerina ama la danza e la musica e si pone a giacere con il ricordo di quando poteva ballare ed il rimpianto per non poterlo più fare, nonché il dolore di dover dormire un sonno che implicitamente si presenta come lungo, come perpetuo. Certo lo scrigno si potrà riaprire, ma non sarà più la stessa cosa, il sonno avrà cancellato la memoria e la ballerina sarà in tal senso comunque altra, come evidenzia il fatto che la ballerina cessi la danza solo con il ricordo ed il rimpianto di non poter più danzare. Tale immagine non sintetizza tuttavia solo la nostalgia della vita che si perde in ogni caso, significa qualcosa di molto particolare e di straordinaria profondità concettuale ed emozionale. Lo scrigno evoca la presenza di cose preziose, di tesori nascosti che, per essere goduti, devono essere scoperti. E di fatto al suo interno c’è una ballerina che danza al suono di una musica, ossia non c’è la vita tout court, con tutte le sue componenti non sempre belle o forse anche spesso non belle, bensì il prezioso che si trova nello scrigno è la bellezza, per eccellenza l’arte simboleggiata nella danza e nella musica, musica di suoni ed anche implicitamente di parole che possono essere musica come nei poeti. Così Ester Cecere ha dato la sua interpretazione della poesia in questa composizione stupenda che illumina, accanto all’accettazione dolcemente dolorosa della parabola della vita, il valore dell’arte come ciò che rende particolarmente preziosa la vita per coloro che cercano ed aprono lo scrigno, per coloro che danzano e suonano. L’arte dunque è tesoro degli artisti e va ricercata da coloro che artisti non sono, ossia lo scrigno va ricercato ed aperto, solo così si potranno vedere le gemme in esso racchiuse, un invito della poetessa a non vivere solo di quotidianità, ma ad avvicinare le cose più preziose che la vita può dare, l’arte che risulta nascosta nello scrigno degli artisti e schiudibile solo a chi, come nelle fiabe più belle, lo possa e voglia aprire. Non potendo analizzare, per quanto brevemente in una recensione, tutte le poesie e neppure molte delle poesie di Ester Cecere, accenniamo qui ancora alla composizione Stella diventerei (34), nella quale la poetessa vorrebbe divenire fredda come una stella, insensibile e non necessitante d’amore pur di non sperimentarne il dolore della perdita come è implicito al testo. Ma in questa composizione, a livello semantico più profondo, c’è anche la riconciliazione della vita con la cessazione dell’esistere come sempre la memoria dell’arte (Mascialino 2001) reca con sé: la poetessa vorrebbe diventare una stella, simbolo principe dell’inorganico in cui ogni esistenza dovrà riconfluire in un ritorno alle origini che l’arte, il canto della poesia in particolare, rende meno spaventoso in quanto ammantato di bellezza estetica, di commozione, appunto di memorie arcaiche divenute inconsce, ma sempre presenti nella psiche umana ed emergenti all’occasione. Poesie dense di emozioni e di stimolazioni nel profondo quelle di Ester Cecere, poesie che vivono di una visione del mondo articolata, vasta, adeguata ad un’umanità consapevole.” RM |
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